Tipo scarno, asciutto, intenso, di poche parole, scritte o parlate. Preferisce, infatti, esprimersi con il disegno e tradurre le sue idee sul foglio bianco, in cui ‘entra’ senza esitazione, con tratti immediati, a penna, mai a matita. Evita la ridondanza delle parole, del facile intellettualismo, delle citazioni, quanto rifiuta le decorazioni, l’architettura intesa come monumento all’architetto, o come moda; l’omologazione, i gesti replicati.
Ha studiato in due paesi, e di due paesi ha assorbito la cultura e il modo di fare architettura. Nella sua formazione, importantissimo è stato il suo apprendistato con gli architetti Valle e Marconi. Ora, a sua volta, stimola i suoi apprendisti-collaboratori, rendendoli costantemente partecipi a un lavoro di squadra nella progettazione e nella frequente partecipazione a concorsi nazionali e internazionali; discute le loro idee e tende a renderli autonomi nel loro lavoro.
Come professionista, però, è molto esigente, prima di tutto con se stesso. Dalla prima idea, al completamento di un progetto, ne segue la realizzazione a tutti i livelli. Lo si vede nel modo in cui ne privilegia l’aspetto pratico, e nel suo rapporto diretto -mai mediato- con i materiali, le loro esigenze, in loro rendimento, caso per caso; nella sua attenzione, quasi ossessiva, per i dettagli.
Le sue forme sono pulite, rigorose; gli elementi declinati in modo semplice, quasi icastico. I suoi spazi, però, non sono mai freddi. Sono caldi, invitanti; entrandovi, si avverte un senso di benessere e vivibilità. A ciò contribuisce la scelta dei materiali, la ricerca delle textures più appropriate, che sollecitano non solo la vista ma tutte le percezioni sensoriali; l’uso della luce e di un vivace cromatismo; elementi che si integrano con un’armonia senza strappi né sorprese, in un linguaggio omogeneo. Omogeneità di un linguaggio che si rivela all’interno di un progetto, però, e che non si ripete necessariamente negli altri suoi lavori. Questo perché considera singolare ed irripetibile ogni sito che gli venga affidato. Uno spazio in cui ‘entra’ senza idee prestabilite, per comprenderne il senso e la potenzialità; per esplorarne il possibile adeguamento all’obiettivo, all’uso, alle funzioni degli elementi che dovranno viverci dentro e intorno. Per rispondere poi -in fasi successive, con la curiosità di sperimentare, di inventare, di permutare- a un insieme complesso di esigenze, unico per ogni progetto.
Infine, l’impressione generale che i suoi progetti risultino ‘riconoscibili’-siano essi edifici pubblici o privati; restauri di case singole, arredamenti d’interno, o rifacimenti urbanistici- non è dovuta soltanto al fatto che sono stati disegnati da una mano e da una particolare sensibilità e ricerca dell’estetica. Ciò che hanno tutti in comune è l’interesse e il rispetto per la natura dei luoghi, e l’attenzione al ritmo di vita dei loro utenti, ci lavorino, camminino, o vivano dentro; li osservino, e li vivano dal fuori, appropriandosene, e facendoli divenire parte familiare e integrante del loro habitat.
Di origine slovena. Alessio Princic è nato e vive a Udine, una città non lontana dal confine. Il suo lavoro, che assomma mondi diversi, non è facilmente attribuibile a questa, o a quella cultura. Princic è troppo lontano da Roma o Milano per essere considerato un architetto italiano. A Lubiana non si pensa di lui come di un architetto sloveno, anche se le sue opere non rappresentano necessariamente l’architettura contemporanea dell’Italia settentrionale, perché le sue forti radici slovene e i suoi studi lo fanno ‘pensare in modo diverso.’ Conoscendolo bene, però, non credo che per Princic questo sia un grosso problema. Più importante è il fatto che ciò che gli interessa veramente è la sua architettura.
L’orientamento pratico della facoltà di Architettura di Lubiana è stato certamente complementare all’indirizzo degli studi conseguiti da Princic alla Facoltà di Architettura di Venezia. Dopo essersi laureato in entrambe le Facoltà, nel 1982, Princic cominciò a lavorare nello studio dell’architetto Federico Marconi, a Udine, e qui sviluppò alcune delle caratteristiche più importanti del suo modo di fare architettura. La prima, una straordinaria meticolosità e dedizione nel suo lavoro, che si esprime anche nella sua perseveranza quando disegna e ridisegna un particolare, fino a definirne la forma nella purezza desiderata. La seconda è l’uso della luce, insolita nell’architettura mediterranea. Se la prima caratteristica ci ricorda Loos e la tradizione centro-europea, il modo di comprendere, e rendere la luce parte integrante dell’ architettura, viene dal nord. E’ nello studio di Marconi, il più importante seguace di Alvar Aalto in Italia, che Princic ha fatto la sua esperienza scandinava e appreso questa particolare sensibilità.
Precisione e sensibile uso della luce si trovano in tutti i lavori di Alessio Princic: nella Casa Samassa, a Udine (1990-93); nella Casa De Nardo a Pagnacco; nella ristrutturazione di Casa Pantarotto (ex-Nicoletti) a Udine (1992-95), nel cui progetto Princic dovette affrontare il delicato compito di rimettere le mani in un’opera del famoso architetto Gino Valle. Qual è, in questo caso, il rapporto fra vecchio e nuovo? Ci può essere un dialogo fecondo e positivo fra un vecchio maestro dell’architettura e un architetto di una nuova generazione? Forse si può trovare una risposta in quelle che, secondo me, dovrebbero essere le qualità di un edificio affinché possa sopravvivere nel tempo. Un’architettura non è un oggetto che si può buttar via a piacimento quando non è più di moda, come oggi si fa oggi con qualsiasi cosa, dalle automobili ai computer. L’architettura sopravvive per anni e secoli dopo che il committente, l’architetto e gli utenti sono scomparsi. Di conseguenza l’architettura dovrebbe potersi adeguare ai gusti ed esigenze di potenziali, futuri utenti, anche se è molto difficile poterli individuare con un anticipo sui tempi. Per far fronte a situazioni future delle quali non conosce l’entità, l’architettura deve possedere delle qualità reali e durature, fondate su una radicata professionalità, anziché su sensazioni effimere. La qualità costantemente presente nella storia dell’architettura, non importa in quale periodo o stile, è l’abilità di un architetto di gestire proporzioni, volumi, materiali, particolari, tecnologia, luce. Tale abilità nasce da conoscenza e sensibilità, e da ciò emerge non l’architettura gotica, o barocca, o moderna, ma una BUONA o CATTIVA architettura. Un’architettura che—come disse Peter Zumthor—“ deve sedurre”.
La casa progettata da Gino Valle è sopravvissuta perché contiene le durevoli qualità di quella che chiamiamo ‘buona architettura’; avendo imparato questa lezione, Alessio Princic ha saputo rimaneggiarla mantenendo il rispetto per l’opera del suo maestro, senza rinunciare, allo stesso tempo, né alle esigenze dei suoi clienti, né alla propria integrità, meticolosità, e concetto di modernità.
Per il restauro di Casa Klavora, a Soca (1998-99) Princic dovette affrontare e superare le restrizioni ambientali a protezione dell’area alpina; nella ristrutturazione di Casa Jesenko, a Vrhnika, il progetto fu limitato da ulteriori regolamenti sui volumi, forma del tetto e facciata. In ambedue i casi, Princic adottò un linguaggio scarno,minimalista; dovette affrontare meno ostacoli, invece, quando progettò Casa Filiput, a Mariano del Friuli (1997-99) in cui un modo minimalista di costruire sembra aver conferito all’edificio un aspetto leggero, quasi fragile.
Fra le opere di Princic, la facciata della Birreria Union, a Lubiana, è un caso a parte. La facciata è ridotta a una ‘pelle’ architettonica che copre ciò che non vogliamo vedere. In questo caso si dovrebbe riconsiderare l’affermazione dei modernisti, per i quali l’architettura è molto di più che uno spessore di pochi centimetri. E’ la pelle che rende piacevole un corpo umano, nascondendo alla vista quegli organi, muscoli e scheletro che non vorremmo mai vedere esposti. La pelle della Birreria Union è volutamente elegante (non ci sono rughe!) e funziona anche come schermo per proiezioni. Qui l’architettura diventa arte.
Se confrontiamo la facciata della Birreria Union all’albergo Clocchiatti (2002-05) ci troviamo davanti a un approccio completamente diverso. Dalla pelle esterna all’ambiente interno, un luogo dove ci si può rilassare e sentirsi a proprio agio. Qui gli spazi interni non solo si adeguano a tutte le possibili attività dei clienti di un albergo, ma le stimolano con un grande repertorio di materiali, colori, luce, acqua, viste, alberi.
Unico, a suo modo, è il campanile di Sant’Andrea di Pasiano (2003-06). La sua posizione strategica, lungo la strada, lo investe di un duplice ruolo; è un punto di riferimento per il paese, e il guardiano dello spazio antistante la chiesa. In questo progetto Princic, cercando una risposta moderna per la vecchia nozione di campanile, l’ha trovata in una serie di blocchi in Corten che ha sovrapposto l’uno sull’altro: una forma contemporanea per risolvere una struttura tradizionale.
Alessio Princic non impone un proprio stile e linguaggio su tutto ciò che costruisce; risolve problemi diversi con diverse risposte. Quello che tutte le sue soluzioni hanno in comune, però, è l’evidente abilità del suo mestiere e la sua dedizione all’architettura.